Descrizione
Chi sei e di dove sei?
Buongiorno a tutte e a tutti! Il mio nome è Rosa Sancarlo, sono una storica dell’arte, viaggiatrice appassionata e ottimista di natura. Dopo una giovinezza a Trento e varie tappe internazionali fra Stati Uniti, Germania e Austria, ora mi ritrovo basata a Zurigo, in Svizzera, a lavorare all’istituto di storia dell’arte. In questa intervista per Mondo Trentino sarò felice di raccontarvi la mia storia di Trentina all’estero.
Ci vuoi raccontare quali sono stati i tuoi studi e dove hai svolto il quarto anno di superiori?
Volentieri. Dopo scuole elementari e medie passate nel quartiere San Pio X di Trento, mi sono iscritta all’indirizzo linguistico del Liceo Leonardo Da Vinci. Mia sorella aveva appena finito la maturità allo stesso indirizzo, e per me era chiaro che avrei seguito le sue orme. Ricordo il liceo come un periodo di scoperta e spensieratezza: tante nuove persone con cui interfacciarmi; tanti nuovi temi da scoprire, in classe così come nelle assemblee d’istituto; insomma, tante avventure. La mia positiva esperienza durante il triennio non mi ha comunque frenata dal decidere di passare il quarto anno di liceo all’estero con il programma di Intercultura (AFS), presso la West Potomac High School, in Alexandria, Virginia.
Cosa ti ha permesso di fare il quarto anno all’estero e soprattutto che esperienza è stata per te?
L'entusiasmo per viaggiare, vedere posti nuovi, conoscere culture a noi estranee, imparare a comunicare in altre lingue, sono colonne portanti della mia famiglia. Tutte queste motivazioni, con l’aggiunta di una sana dose di incoscienza, mi hanno spinto ad iscrivermi al quarto anno all’estero. Devo dare credito soprattutto a mia mamma, dedita insegnante d’inglese alle medie. Lei ha sempre portato me e mia sorella con sé durante i soggiorni di studio estivi organizzati per i suoi studenti in diversi college delle isole britanniche. Queste esperienze hanno sicuramente alimentato in me una voglia di viaggiare, scoprire e imparare.
Come meta ho scelto gli Stati Uniti. Ricordo che tanti miei compagni la consideravano una meta “scontata”, comprensibilmente. Tuttavia ero incuriosita però dalla prospettiva di scoprire se l’immagine della cultura popolare americana che ci arriva da questa parte dell’Atlantico corrispondesse alla realtà vissuta o meno. E infatti ricordo lo shock di constatare, durante i miei primi tempi in Nord America, come quella che mi immaginavo fosse una cultura occidentale simile a quella Europea, si declinasse invece in maniere totalmente differenti.
L’esperienza dell’anno all’estero è stata, in poche parole, spaesante, capovolgente, arricchente ed entusiasmante. Ho avuto l’enorme fortuna di essere ospitata da una famiglia, gli Evans, con cui ho intrecciato un rapporto profondo, sincero e duraturo. Lo so che può essere un po’ strano sentirlo dire, ma ho trovato una vera e propria seconda famiglia, con cui ho ancora stretti contatti.
Quale percorso universitario poi hai intrapreso e per quali motivi?
Poiché una delle mie materie preferite durante il percorso scolastico è costantemente stata arte e storia dell’arte, una volta finito il liceo ho deciso di iscrivermi al percorso storico artistico dell’indirizzo di studio di Beni Culturali, presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Sicuramente questa mia scelta è stata anche frutto del bel rapporto che ho la fortuna di avere con mio padre, artista e insegnante di arte e storia dell’arte al liceo. Con lui, attività creative, apprezzamento estetico, e viaggi per musei e chiese sono sempre stati all’ordine del giorno e hanno stimolato in me una passione per l’arte e la cultura visiva.
Devo ammettere comunque che la mia scelta di percorso universitario è stata inizialmente molto spontanea, seguendo la filosofia del “provare a vedere come va”. Questa attitudine è cambiata drasticamente durante il primo semestre di studi: l’entusiasmo delle prime lezioni di analisi visiva di opere rinascimentali, la novità dell’ambiente universitario, uno stimolante e dedito gruppo di amici hanno svegliato in me un’intensa passione e dedizione per lo studio. Così, i primi due anni di università sono passati intensamente, focalizzati su corsi ed esami.
Col secondo anno, tuttavia, ha cominciato ad emergere in me anche la sensazione di essere un po’ ristretta ed isolata, lontana dai grandi poli delle scene artistiche internazionali. Perciò ho deciso di iscrivermi al progetto Erasmus per il mio terzo anno di triennale.
Durante il terzo anno di triennale hai nuovamente la possibilità tramite il progetto Erasmus di recarti all’estero, dove?
Sentendomi già sicura sull’inglese, era arrivato il momento di investire sull’altra lingua studiata a lungo a scuola – e decisamente più ostica dell’inglese -, il tedesco.
La meta a me assegnata è stata Monaco di Baviera. Ricordo – ora con un sorriso - che all’inizio ero abbastanza delusa di questa meta, mi sembrava troppo vicina, troppo conosciuta. Ma una volta arrivata a Monaco nel giro di pochi mesi mi sono sentita totalmente conquistata dalla città, dall’università, da biblioteche e musei, e soprattutto da un gruppo di amici tedeschi fantastici, che contano ancora oggi fra le mie più care amicizie. Ancora una volta la fortuna è stata dalla mia parte, dato che Monaco come città può anche risultare poco accogliente e alquanto grigia.
Cosa succede dopo, come prosegue il tuo percorso universitario?
Avvicinandomi alla fine dell’anno Erasmus, sento di non essere pronta a concludere la mia esperienza a Monaco. Decido quindi di fare di Monaco la mia casa per questa fase di vita iscrivendomi alla specialistica in storia dell’arte presso la Ludwig-Maximilians Universität come studentessa a tutti gli effetti.
Dopo un anno di passaggio un po’ burrascoso, dedito al conseguimento della laurea triennale, varie certificazioni di tedesco per essere ammessa alla specialistica, e un po’ di lavoro da barista per guadagnare qualche soldino, nell’autunno 2015 inizio i corsi. In questo periodo, ho la fortuna di incontrare tre professoresse che “rivoluzionano” il mio percorso universitario. Se fino a quel momento i miei interessi di studio vertevano più su contesti storico-artistici e approcci metodologici abbastanza canonici – per esempio un approccio di analisi puramente stilistica al Rinascimento italiano o al Romanticismo tedesco -, gli insegnamenti di queste tre professoresse mi hanno improvvisamente fatto confrontare con quesiti molto più critici e destabilizzanti rispetto alle colonne portanti della narrativa storico-artistica: si può parlare di un’unica, uniforme storia dell’arte, o si dovrebbe parlare di molteplici storie dell’arte? Quali sono tutti quei contesti storico-culturali che sono stati sistematicamente esclusi da questa narrativa e secondo quali dinamiche? Come si declinano i rapporti fra chi parla di un determinato contesto storico-artistico e chi lo ha vissuto o lo vive? Come prendere coscienza della propria prospettiva necessariamente soggettiva e relativa nella ricerca storico-artistica? Spronata da queste riflessioni, nei ricchi e impegnativi anni di specialistica mi sono così sempre più focalizzata su un approccio descritto come transculturale e postcoloniale allo studio di contesti e pratiche artistiche moderne e contemporanee.
Quando ti trasferisci a Vienna e per quali motivi principali?
Dopo il conseguimento della laurea specialistica nel 2017 e in tutto 4 stupendi anni di vita a Monaco, si era ormai avvicinato il momento di cambiare capitolo.
Il mio partner Daniele aveva da un anno iniziato un dottorato in fisica all’università tecnica di Vienna. Il pensiero di vivere in un’altra città ricca di storia e d'arte, dove poter continuare a “sfruttare” il mio tedesco, a una giornata di treno distante da Trento, con varie possibilità lavorative e di studio in campo artistico, e soprattutto la prospettiva di vivere nella stessa città di Daniele dopo tanti anni di distanza, sono le principali motivazioni che mi hanno spinta a trasferirmi a Vienna nell’autunno 2017.
Nonostante il fascino della città e il piacere di vivere una quotidianità di coppia, gli anni a Vienna sono stati arricchenti ma anche decisamente impegnativi, soprattutto in aspetti di vita fondamentali come la ricerca di un lavoro o di una casa. Mi piace infatti descrivere il mio rapporto con Vienna come quello con una “madre molto severa”.
Dopo alcuni iniziali mesi di tirocinio presso la Wiener Achse, un’associazione che organizza mostre e progetti artistici, ho trovato un posto come collaboratrice nel gruppo di ricerca CReA Lab (Cognitive Research in Art History) presso l’Università di Vienna. Qui ho preso familiarità con un approccio innovativo allo studio della storia dell’arte: un approccio interdisciplinare all’incrocio con la psicologia, l’estetica e la statistica, facendo ampio uso di metodi di ricerca empirici e strumenti tecnologici, e collaborando con vari musei viennesi, come il Museo Belvedere e il Museum Quartier. Anche se inizialmente l’idea era quella di sviluppare un progetto di dottorato da svolgere in questo contesto, svariati fattori hanno accresciuto in me dubbi sulla reale fattibilità di questa prospettiva. Soprattutto la distanza – geografica e mentale - offertami da un soggiorno di ricerca presso l’università di Princeton, Stati Uniti, nell’autunno del 2019 mi ha fatto realizzare che, sì, volevo intraprendere un dottorato, ma no, non avrei potuto farlo lì dove mi trovavo.
Parlaci del tuo periodo a Princeton negli USA?
Il semestre presso il Dipartimento di arte e archeologia all’Università di Princeton nell’autunno 2019 come Visiting Student Research Collaborator è stata un’occasione preziosa e unica per conoscere il sistema di educazione americano, per fare esperienza diretta dell’ambiente di un’Università “ivy league”, e soprattutto per studiare arte Americana e Afroamericana dal vero e proprio nucleo dei suoi discorsi accademici.
Arrivata a settembre in questa minuscola cittadina nel New Jersey sviluppata letteralmente attorno al e in funzione del campus, mi sono freneticamente immersa nella vita universitaria: sono andata a tutte le possibili conferenze offerte, ho frequentato lezioni di svariati dipartimenti, ho passato serate in biblioteca a leggere, e ho tentato di entrare in dialogo con un sacco di persone diverse, professor*, collegh* e student*. Ero determinata a sfruttare l'opportunità fino all’ultima goccia e l’esperienza è stata esilarante. In particolare due corsi mi hanno profondamente colpita: Introduction to 20th century African-American Art, tenuto dal professore Chika Okeke-Agulu, e What is Black Art, offerto dalla professoressa Anna Arabindan-Kesson. Come accennavo prima, questi corsi, questi temi, questi scambi così fertili di nuove prospettive, nuove idee, e domande critiche mi hanno portata alla illuminante e al contempo dirompente domanda: ma cosa sto facendo a Vienna? Ho così realizzato di dover cambiare rotta. Questo si è rivelato un periodo di grandi tensioni e conflitti interiori, ma anche una fase di riflessione e di vita decisiva. Ad accompagnare e, in un certo senso, alleviare i miei pensieri di quel periodo sono stati i colori e gli effetti di luce di quell’ autunno americano stupendo, così come le mostre affascinanti che ho potuto visitare e tutti i viaggi e le amicizie intrecciate in quei mesi.
Cosa fai adesso e dove ti trovi?
Tornata dal mio soggiorno a Princeton e nel bel mezzo del primo lockdown dovuto alla pandemia, mi sono messa ad inviare candidature per posti di lavoro o posti di dottorato. Nel giro di sei mesi, avrò spedito decine di candidature, ma ovviamente le tempistiche erano a dir poco sfavorevoli. Di tutte le domande che ho inviato, l’unica inviata fuori dall’Austria, e cioè a Zurigo, è andata in porto. Sarà stato destino.
Ora lavoro all’Università di Zurigo, presso l’Istituto di storia dell’arte (KHIST - Kunsthistorisches Institut) come dottoranda e assistente alla ricerca e all’insegnamento per la cattedra di storia dell’arte moderna e contemporanea, e sono molto felice di essere qui.
Il mio attuale lavoro si declina in tre principali direzioni: l’insegnamento semestrale di seminari di storia dell’arte moderna e contemporanea agli studenti di triennale; l’assistenza alla cattedra e l’organizzazione di svariati eventi e attività, come conferenze, workshops, e simposi; l’attività di ricerca per la mia tesi di dottorato e per temi affini.
Qual è l’argomento di lavoro a te più caro in cui ti stai specializzando e portando avanti la tua ricerca universitaria?
Come accennavo prima, la specialistica a Monaco mi ha permesso di scoprire l’approccio transculturale e postcoloniale allo studio e ricerca di temi, teorie e metodologie storico-artistiche. Questo approccio lo applico come lente, come chiave di lettura e interpretazione per studiare contesti, fenomeni e pratiche artistiche moderne e contemporanee, con un’attenzione particolare a quelle pratiche artistiche originate dai dialoghi e contatti tra la Diaspora Africana e diversi contesti Europei e Nordamericani. Il mio progetto di dottorato nello specifico esamina la silhouette come modalità e azione di rappresentazione ambigua all’interno dell'arte Afroamericana del Rinascimento di Harlem e del periodo successivo, quindi durante la prima metà del ‘900, e si interroga sul ruolo che questo oggetto visivo possa aver avuto in dinamiche di formazione identitaria.
Una domanda che a questo punto può sorgere spontanea è: ma che ci fa una dottoranda italiana, in Svizzera, a studiare arte Afroamericana? Questa è una domanda che accompagna quotidianamente il mio lavoro di ricerca, in questa o svariate altre formulazioni: ma chi sono io per poter dire qualcosa di significativo sulla formazione di un senso d’identità Afroamericano? Che diritto ho di interpretare delle dinamiche culturali e sociali così intime di una comunità che non conosco dal suo interno? Come posso svolgere la mia ricerca in maniera rispettosa e cosciente? Credo fermamente che attraverso lo studio di arti e culture visive legate a comunità a noi non familiari, si possa comprendere meglio la storia e la situazione sociale attuale di questa comunità; diventarne consapevole e apprezzarla; tramite questa lente, ampliare le proprie prospettive socioculturali ed essere consci della propria relativa posizionalità; ed infine, essere più inclini ad un panorama accogliente, multiplo, inclusivo e diverso. Se ci si aspettasse di studiare solo fenomeni artistici e culturali a noi familiari, ci ritroveremo con sistemi di conoscenza estremamente autarchici. Ovviamente però questo è opportuno farlo con una profonda coscienza e riflessione riguardante il proprio punto di vista soggettivo e il contesto specifico e necessariamente parziale da cui si parla, la terminologia da usare e il lasciare ampio spazio alle voci e posizioni dei gruppi e persone di cui ci si sta occupando. Lo studio dell’arte e della cultura Afroamericana e della Diaspora Africana offre per esempio una lente per toccare temi e quesiti significativi, rilevanti, e urgenti anche per il continente europeo, come i nodi dell’ineguaglianza sociale, i fenomeni di discriminazione e razzismo, le questioni identitarie, per nominare solo la punta dell’iceberg. Ovviamente questi discorsi non possono essere traslati e tradotti pari pari da un contesto all’altro, una rielaborazione e ricontestualizzazione è imperativa. Ma l’interazione e lo scambio fra discorsi accademici e sistemi di conoscenza provenienti da contesti geografici e culturali diversi può solo fornire, a mio avviso, strumenti di analisi e comprensione con grandi potenzialità.
Come si relaziona la tua ricerca nel tuo ambiente lavorativo?
Non sono sola nel pormi queste domande e fare queste riflessioni. Qui a Zurigo ho la fortuna di aver trovato una serie di collegh* che, dalle loro ricerche tematiche specifiche, hanno sviluppato un analogo interesse e bisogno di scambio e riflessione collettiva su questi quesiti. Da questa voglia e necessità di scambio e riflessione è nato CARAH – Collective for Anti-Racist Art History. Formatosi alla fine del 2020, il collettivo ha come scopo principale quello di sensibilizzare la storia dell'arte a dinamiche razziste e discriminatorie, così come al pensiero e comportamento antirazzista. La nostra preoccupazione centrale consiste nel comprendere e mettere in discussione i processi di esclusione coinvolti nella formazione del canone storico-artistico e i “punti ciechi” nella metodologia della ricerca e dell'insegnamento della disciplina. Questo tentiamo di farlo attraverso un dialogo collaborativo, all’intersezione tra accademia e mondo dell’arte, attingendo costantemente alle competenze di altri campi, e intendendo il nostro ruolo non come esperti ma come mediatori.
Permettendomi di parlare anche per le mie colleghe e i miei colleghi, credo che il risultato di cui andiamo più fieri finora sia il nostro manuale sui metodi e le strategie antirazziste nella storia dell'arte ("Antirassismus in der Kunstgeschichte: Ein (unfertiger) Leitfaden"). Si tratta di un documento open-access, basato su un approccio dialogico e orientato a porre delle domande, piuttosto che dare delle risposte. Il manuale affronta questioni come la rappresentazione di stereotipi, l'appropriazione culturale e la terminologia nei contesti di ricerca e insegnamento della storia dell'arte, e così aspira a creare consapevolezza sugli approcci antirazzisti nella nostra disciplina.
Quali sono le caratteristiche a 360° dell’ambiente accademico universitario? Soprattutto quali i lati che molte volte risultano non detti?
L’ambiente accademico, soprattutto l’ambiente accademico umanistico e storico-artistico a me più familiare, è un ambiente composito, con tanti lati positivi, e altrettanti lati negativi. Anche se sono molto felice di averne fatto esperienza e sono grata di farne tutt’ora parte, esistono degli aspetti di questo mondo che semplicemente non si manifestano così esplicitamente durante gli studi di triennale e specialistica, i quali quindi sono più difficili da soppesare a priori.
Il contatto diretto e costante con l’arte, il piacere estetico e il coinvolgimento intellettuale; l’entusiasmo della ricerca e la sensazione, nel proprio piccolo, di stare potenzialmente “scoprendo qualcosa di nuovo”; una certa libertà nella scelta dei temi di cui occuparsi; una certa flessibilità in ritmi ed orari lavorativi; una certa possibilità di viaggiare per conferenze e ricerche d’archivio; lo stimolante scambio e dialogo con colleghi che lavorano su temi comuni. Io ritengo questi i principali lati positivi dell’ambiente accademico umanistico e storico-artistico. Sottolineando il fatto, tuttavia, che queste impressioni sono frutto delle mie esperienze personali, che nel formato dell’intervista devono per forza venir un po’ generalizzate, e soprattutto, che le condizioni finanziarie e lavorative dipendono enormemente dal paese in cui ci si trova, dall’università o centro di ricerca di cui si fa parte, e dal programma frequentato. Ci sono un’ampia gamma di fattori che possono influenzare il proprio percorso accademico, molti dei quali parzialmente o totalmente fuori dal proprio controllo.
Detto questo, sono convinta che sia anche necessario parlare apertamente dei lati più negativi che l’accademia porta con sé: prima di tutto l’altissima precarietà finanziaria dovuta ai pochi fondi investiti nella ricerca accademica, in Europa in generale e, purtroppo, in Italia in particolare; l’instabilità lavorativa dovuta ai pochi posti di lavoro e la conseguente aspettativa, data per scontata, che ogni pochi anni si sia pronti a sradicarsi e spostarsi, non importa in quale parte del mondo. Questa, a mio avviso, costituisce una preziosa possibilità di formazione, che io stessa mi sono ampiamente goduta, ma non può divenire una condizione assoluta e perpetua, soprattutto quando la prospettiva di formare una famiglia comincia a concretizzarsi. A tutto questo si somma poi la sconfortante assenza di sicurezza di trovare un posto di lavoro nel mondo accademico, non importa quanto sia brillante il proprio curriculum. Questa sicurezza, oggi come oggi, non la si ha. E a questo punto ci si chiede se, dopo una certa soglia, il tutto diventi più una questione di resistenza che di competenza. Un altro aspetto rattristante è l’accezione negativa spesso attribuita dall’opinione pubblica al lavoro accademico, non considerato come un “vero” lavoro. E l’incongruenza fra questa accezione svalorizzante con la tendenza-fatta-pressione, data la natura del lavoro, di portarsi costantemente il lavoro a casa e non smettere mai di lavorare. Per quanto io sia spassionatamente impegnata nella ricerca, ritengo che l’ambiente accademico sia altamente pronto per una riconsiderazione drastica e sistemica.
Come hai passato e stai passando la situazione legata alla Pandemia?
Poiché la maggior parte dei miei cari sono ancora qua e senza conseguenze troppo laceranti causate dalla pandemia, non posso che ritenermi tutto sommato fortunata. Purtroppo ho avuto un lutto inaspettato nella mia famiglia americana, a cui accennavo prima. Quello è stato il momento più brutale di questi anni di pandemia per me.
Io e Daniele abbiamo passato la pandemia a Vienna, in questo appartamentino piccino, molto urbano e con finestre solo su cortili interni. Lo avevamo preso dicendoci che tanto avremmo passato la maggior parte del nostro tempo libero fuori. Così non è stato e il nostro appartamentino viennese ci ha messo poco a diventare un po’ opprimente. Ma almeno abbiamo potuto passare questo periodo assieme. Diciamo che i primi due anni di pandemia ci hanno fatto confrontare con inaspettate ed intense tensioni e preoccupazioni, relative ai nostri cari, alla salute, al lavoro. Queste erano talvolta condite con singoli momenti di spensieratezza, come quando Daniele si metteva a sfornare focacce all’una di notte e io mi vestivo elegante per cenare, come tutte le altre sere, a casa.
Che aria si respira a Zurigo oggi? Com’è la gente a Zurigo e come la gente comune vive questo nuovo periodo storico di cambiamenti climatici, guerre, pandemia, migrazioni, sono tutti temi questi molto sentiti anche in Svizzera?
Ovviamente questa è una interpretazione soggettiva e parziale. Questi temi così accesi e urgenti del nostro momento storico sono decisamente sentiti anche qui in Svizzera, soprattutto in ambienti universitari, artistici, e giovanili. Non solo sono sentiti, ma vengono anche integrati e trattati nelle varie attività e offerte delle diverse istituzioni, musei, università, o dei diversi collettivi e gruppi auto-organizzati che nutrono il panorama della cultura sociale “zurighese”. Questo anche grazie a due ulteriori fattori: prima di tutto il fatto che una sostanziale parte della popolazione svizzera ha un passato familiare multiculturale, internazionale, e/o esperienze di migrazione; in secondo luogo, qui è semplicemente più facile accedere a risorse per la realizzazione di progetti, piccoli o grandi. Tuttavia, soprattutto se si parla non dei singoli casi ma di una sensazione sociale e culturale più generale, la mia impressione è che questi temi siano sentiti da un punto di vista più ideale che pratico, sentiti meno sulla “propria pelle”, rispetto a quello che può essere in Italia o in altri luoghi. Fatto comprensibile dato l’alto benessere sociale.
Quale rapporto hai con il Trentino? Ci vieni spesso?
Il Trentino per me è casa, famiglia, punto di partenza e ritorno, rifugio. Anche se ho sentito il bisogno di andarmene e fare esperienze in posti anche molto diversi, torno regolarmente e sempre volentieri: per passare il tempo con la mia famiglia, vedere gli amici di sempre, andare in montagna, mangiare una bella polenta.
Soprattutto da quando il mio partner è tornato a vivere a Trento, sono felice di avere un ulteriore motivo per tornare più frequentemente e riscoprire alcuni aspetti della città e della vita trentina a cui finora non avevo dato abbastanza attenzione.
Vuoi lasciare un messaggio a tutti i trentini e non che ti leggono e alla Community di MondoTrentino?
Grazie mille per aver letto la mia intervista, spero vi sia interessata! Sono sempre felice di entrare in dialogo con persone nuove e interessate a temi simili a quelli di cui mi occupo io, quindi sentitevi liber* di contattarmi, o tramite Mondo Trentino, o visitando il mio profilo sulla pagina dell’università di Zurigo, seguendo questo link: https://www.khist.uzh.ch/de/chairs/moderne/mitarbeitende/sancarlo.html
Un caro saluto a tutt*!