Descrizione
Suor Maria Martinelli, di origine trentina studia al Liceo Scientifico Da Vinci a Trento e successivamente frequenta la Facoltà di Medicina a Pavia. Con il sogno dell’Africa sin da bambina, quando leggeva le riviste missionarie che parlavano del continente africano. Durante gli anni dell'Università si chiarisce sempre più la chiamata alla vita religiosa missionaria e subito dopo la laurea in Medicina entra a far parte della Congregazione delle Missionarie Comboniane, farà la Professione religiosa nel 1987. Successivamente verrà mandata in UK prima a Londra e poi a Liverpool per imparare l’inglese e conseguire il diploma di Medicina Tropicale.
E dopo? cosa succede?
Ottenuto il diploma, nel 1988, sono stata inviata finalmente in Africa, che ho raggiunto il 7 agosto.
Dove riveste il suo primo mandato? Cosa ricorda del suo primo impatto e quando avviene?
La mia prima missione è stata in Uganda, presso l’Ospedale di Aber, dove operava anche il CUAMM. Era una zona purtroppo allora molto instabile, dove c’erano molti attacchi ai villaggi da parte della “Lord Resistance army” e dove poco tempo dopo il mio arrivo, siamo stati attaccati anche noi. Per cui diciamo che il mio primo impatto è stato piuttosto “forte”… è stato però anche un periodo molto intenso e bello, dove sono stata immersa decisamente nella professione di medico, spaziando nei diversi ambiti, come si usa ancora in Africa negli Ospedali periferici, guidata in questo dalle mie consorelle e dai colleghi. Ho vissuto con la gente momenti gioiosi e anche momenti tragici ed ho imparato ad apprezzare la resilienza, la capacità di non lasciarsi andare e di ricominciare ogni volta.
Successivamente viene inviata in Etiopia, quanto ci rimane e di cosa si occupa?
Si, dopo un anno sono stata inviata in Etiopia, dove sono rimasta 3 anni. Lì il mio incarico era di coordinare il lavoro dei dispensari che avevamo sparsi nella regione del Sidamo, nel Sud del Paese. Ho iniziato con le strutture gestite da noi Comboniane, ma ben presto anche le altre suore mi hanno chiesto di collaborare e così è nato un coordinamento che coinvolgeva tutti i posti di salute della Diocesi, per la formazione del personale, per confrontarsi su particolari problematiche e per standardizzare le terapie. Ogni mese poi passavo dal piccolo Ospedale Diocesano per interventi elettivi su persone povere, che non potevano accedere al grande Ospedale regionale.
Ci parli del Ciad, quanto ci rimane e cosa fa in quel periodo?
Ecco, dopo i 3 anni in Etiopia, la mia Superiora Generale mi ha chiesto di andare in Ciad, dove c’era bisogno di un Ospedale nel Distretto di Bébédjia, nella Diocesi di Doba. È stato un gran cambiamento, anche perché ho dovuto imparare il Francese, quindi una nuova lingua, e ambientarmi in un ambiente totalmente diverso, sia come cultura che come clima. Lì ho iniziato con altre due sorelle riaprendo il dispensario e nel frattempo lavorando a mettere a punto le strutture necessarie per l’Ospedale, partendo da alcune costruzioni già esistenti. E finalmente, a marzo 1994, abbiamo potuto aprire il primo reparto e anche fare i primi interventi chirurgici, con pochissimi mezzi e solo pochi strumenti. Pian piano siamo riuscite a trovare e formare un gruppo di infermieri/e e organizzare meglio il servizio. Al tempo c’era una sola scuola di formazione sanitaria, in tutto il Paese, che stava uscendo faticosamente da una situazione di guerra civile, poi per fortuna un poco per volta sono state aperte altre scuole e così ci siamo rese disponibili per offrire il tirocinio pratico agli studenti, che così hanno anche aiutato e alcuni poi li abbiamo assunti. Più tardi ci sono stati inviati anche alcuni nuovi laureati in Medicina per il tirocinio di chirurgia, che sono stati anche un buon supporto per noi, nel periodo che sono stati lì. Per alcuni anni siamo stati coadiuvati da una ONG, che ha inviato dei medici e personale per l’amministrazione. Inoltre, nel corso degli anni, ci hanno assistiti diversi specialisti italiani che hanno offerto dei periodi di volontariato e sono stati molto importanti nella mia stessa formazione in diversi ambiti specialistici. Una volta terminata la costruzione dell’Ospedale ci siamo impegnati nella costruzione di diversi dispensari sparsi nel nostro distretto secondo il piano del Ministero. Alcuni di questi abbastanza lontani, anche 180 km. E così è iniziata anche l’attività sul territorio, con uno dei dottori che seguivano i vari posti, un po’ come facevo io in Etiopia, e regolari corsi di formazione per i responsabili.
Quando torna in Italia e per quanto tempo? Di cosa si è occupata nel periodo in Italia?
Sono stata assegnata in Italia nel 2005, con il compito di seguire una ricerca sulle attività dei religiosi/e nella lotta all’HIV/AIDS, per conto delle Unioni dei Superiori/e Generali. È stato un periodo interessante, con un impegno sempre in ambito medico, ma totalmente diverso, che mi ha permesso di interagire con molte persone e Associazioni in giro per il mondo, tra cui principalmente UNAIDS. Dalla ricerca è uscito poi che circa il 26% di tutte le attività in favore degli ammalati di AIDS era stato iniziato e portato avanti da religiosi/e, sia in ambito di cura che di prevenzione. Ovviamente con modalità diverse a seconda che si trattasse di trovarsi in Paesi ricchi o in Paesi in via di sviluppo, sempre però mettendo al centro le persone e il loro bene. Questa ricerca è stata anche l’opportunità per far incontrare e dialogare molte di queste realtà e crescere dunque nelle “buone pratiche” per un servizio sempre più qualificato ed aggiornato. Per fortuna negli anni le cose sono cambiate molto e, grazie a terapie efficaci, anche se la malattia non è stata debellata, tuttavia non si assiste più ai disastri umanitari che facevano scomparire interi villaggi e producevano un numero notevole di orfani, specialmente in Africa. Va comunque sempre continuata l’attività di prevenzione, dando particolare importanza all'adozione di comportamenti corretti.
Quando e per dove riparte esattamente? Quanto tempo ci rimarrà e con quali progetti?
Nel 2008 sono stata inviata in Sudan, a Wau, una città del Sud con il compito di aprire una scuola di formazione per infermieri/e. Si era in un periodo di transizione politica, alla fine di una lunghissima guerra che aveva contrapposto Nord e Sud del Paese, combattuta essenzialmente al Sud e lasciandolo in estrema povertà e completamente privo di infrastrutture di base, per non parlare della gente, sfiancata da estrema povertà e priva di speranza. I Vescovi avevano chiesto alle Unioni dei Religiosi di aiutare la popolazione, specialmente attraverso l’Educazione e la Sanità, a ricostruire il Paese e in modo più specifico ricostruire il tessuto sociale, e così diverse Congregazioni si sono messe assieme per questo progetto, dando vita ad una organizzazione chiamata Solidarity with South Sudan. Noi Comboniane avevamo l’incarico di coordinare la parte sanitaria del progetto, curandone l’aspetto formativo, assieme ad altre Congregazioni. Così abbiamo iniziato con la ristrutturazione di un centro già esistente ma molto rovinato perché occupato per lungo tempo da diversi gruppi di profughi, e finalmente a gennaio 2010 abbiamo potuto iniziare i corsi per infermieri/e, della durata di 3 anni, cui si sono aggiunti più tardi anche quelli per ostetrici/e, e che hanno prodotto finora 250 diplomati che servono il loro Paese in diversi posti. Ben presto abbiamo dovuto però confrontarci con la necessità di avere un Ospedale dove mandare gli studenti per la parte pratica e non era fattibile in loco perché le strutture sanitarie non erano adatte allo scopo, per la scarsità dei mezzi e di personale preparato. L’occasione buona è venuta quando il Governo ha restituito alla Diocesi l’Ospedale militare di Wau, che era stato confiscato nel 1958 e trasformato appunto in ospedale militare. Così, con tanta fede, buona volontà, l’impegno della mia Congregazione e grazie all’aiuto economico di tanti amici ed Enti, tra cui la CEI e anche la Provincia di Trento attraverso il Centro Missionario Diocesano, questa struttura è stata ritrasformata per farne un ospedale accogliente ed efficiente. È stato un lavoro di 5 anni, però da subito, a gennaio del 2011, siamo riusciti a far funzionare gli ambulatori e il servizio di piccola chirurgia e poi man mano che sala operatoria e reparti erano pronti, ad utilizzare anche quelli ampliando via via le attività, sempre dando particolare attenzione alle mamme e ai bambini.
Io ho lasciato la scuola nel 2012 per dedicarmi totalmente all’Ospedale, fino al 2017, quando sono stata eletta Superiora Provinciale delle Comboniane in Sud Sudan ed ho dovuto trasferirmi a Juba.
Cosa concretamente siete riusciti a fare come comunità religiosa in Sud Sudan?
Noi Missionarie Comboniane siamo in Sud Sudan dall’inizio del novecento e dopo inizi promettenti con una grande espansione di missioni nella regione, abbiamo condiviso con la gente tutte le traversie e le sofferenze legate alla lunga guerra, comprese espulsioni, rientri, fughe, vita in campi di rifugiati. Tra il ’62 e il ’64 siamo state espulse tutte, con gli altri missionari, cattolici e protestanti, e questa è stata l’occasione per la nostra Congregazione di entrare in altri Paesi africani, in Medio Oriente e in Sud America. Appena è stato possibile rientrare l’abbiamo fatto, ma ovviamente con un numero molto inferiore di membri e dunque si è trattato di diminuire anche il numero di missioni e scegliere modalità diverse. Però altre Congregazioni sono entrate in Sud Sudan negli ultimi anni, dopo l’indipendenza. Ora abbiamo 8 comunità in regioni diverse e ci occupiamo di varie attività, che vanno dall’educazione alla salute, al lavoro pastorale nelle parrocchie o nelle Diocesi, all’animazione di gruppi di donne, di giovani, all’insegnamento in Università. Subito dopo l’Indipendenza abbiamo contribuito alla formazione delle Radio Diocesane, ora portate avanti da operatori locali. In tutto quanto impegniamo collaboratori locali che formiamo e ai quali man mano diamo responsabilità.
Che situazione avete trovato ed ora quali sono le maggiori resistenze da affrontare?
Come ho già detto sopra, la situazione generale era di un Paese stremato dalla guerra dove però c’era una gran voglia da parte della gente di ripartire, di ricostruire, di farlo diventare a tutti gli effetti una nazione con un suo peso all’interno del continente e sulla scena mondiale. Purtroppo però il sogno è durato poco, perché dopo neanche tre anni è scoppiata una guerra civile che ha sfiancato ogni iniziativa e ha creato nuovi milioni di profughi e sfollati e decisamente bloccato ogni iniziativa di sviluppo fino a poco tempo fa.
Attualmente che risultati state avendo?
Risultati… ci stiamo impegnando a fondo in quegli ambiti già menzionati prima e direi che è ammirabile la volontà dei giovani nel perseguire un'istruzione per generare un cambiamento. D’altra parte è anche vero che ci sono aree molto marginalizzate, o ancora interessate da conflitti, immensi campi di sfollati o profughi … e qui è molto difficile rendere accessibili degli aiuti che non siano per la semplice sopravvivenza. Però, ecco, man mano che i giovani si formano, assumono diverse professionalità, riflettono e si impegnano in prima persona, si vedono segni di cambiamento.
Quali sono gli ambiti in cui ponete maggiore attenzione?
Ho già sottolineato l’importanza che diamo all’educazione, sia in ambito scolastico/professionale che in modo più ampio attraverso la facilitazione di gruppi giovanili o di donne, in ambito catechetico e parrocchiale, nei quali si approfondiscono temi cruciali per la vita pratica, da una prospettiva di fede cristiana. L’altro pilastro è quello sanitario, attraverso l’assistenza diretta e la formazione. Negli ultimi anni siamo impegnate anche in ambito psico-sociale nel condurre corsi di “trauma healing”, cioè guarigione dai traumi. Con una situazione come quella che si era creata, praticamente tutti, chi più chi meno, hanno subito traumi psicologici, per aver assistito o anche partecipato ad azioni di guerra, con tutto quello che comporta di brutalità, uccisioni, stupri, fame, fughe ecc. e queste cose lasciano un segno indelebile sulle persone, che siano donne, bambini, uomini e anche i soldati stessi, per cui c’è un estremo bisogno di affrontare questi traumi se si vuole costruire qualcosa di nuovo. Bisogna passare attraverso un processo di rielaborazione, di perdono o di richiesta di perdono, per poter arrivare ad una pace che abbia qualche possibilità di diventare duratura. La gente lo sente e sempre più chiede questo tipo di servizio.
Durante la sua vita di medico missionario ha istituito anche scuole di formazione sanitaria, com’è la situazione?
Ad oggi direi che la situazione sta migliorando proprio grazie a tutte le persone che abbiamo formato e anche per l’impegno governativo messo in atto per diffondere scuole di formazione sanitaria e migliorare i suoi Ospedali e Centri di salute di base. Di lavoro ne resta comunque ancora molto da fare, siamo ben lontani da una situazione ottimale.
Nel vostro Ospedale vengono dall’estero medici specialisti, da dove vengono solitamente?
Sì, abbiamo avuto diversi collaboratori, sia italiani che da altri Paesi europei. Questo tipo di collaborazione si era interrotta per la guerra civile, e stenta a riprendere, per ragioni di sicurezza, però confidiamo che possa continuare nel tempo perché è un'opportunità importante per lo scambio di conoscenze e la crescita del nostro personale e alla fine per il bene della popolazione. I periodi di permanenza di questi specialisti può variare da qualche settimana ad alcuni mesi.
Quante lingue parla oggi?
Non molte, a parte l’italiano (e il dialetto trentino), essenzialmente inglese e francese, solo qualche parola di arabo e qualche parola delle lingue locali dei posti in cui sono passata. Del resto ogni gruppo etnico ha la propria lingua ed è praticamente impossibile apprenderle tutte, per cui lavoriamo molto attraverso un traduttore. Però sono convinta che sia importante imparare almeno qualche parola, per una questione di rispetto della gente che ci accoglie e, nel mio lavoro, per cercare di mettere le persone il più possibile a proprio agio.
Come vengono accolti i pazienti nel vostro Ospedale?
Quando un paziente arriva durante le ore di ambulatorio viene anzitutto accolto nel centro di triage, in modo da indirizzarlo nel posto corretto. Se si tratta di emergenza viene subito visto da un medico o clinical officer ed eventualmente stabilizzato o ricoverato e messo in trattamento. Una cosa su cui come Direzione dell’Ospedale insistiamo molto è di accogliere tutti con gentilezza e non fare distinzione tra poveri e ricchi, ma semmai dare la priorità ai primi, che spesso vengono da più lontano. Chiediamo una specie di ticket per le prestazioni, che ci aiuta almeno per coprire le piccole spese, ma se la famiglia non può pagare immediatamente di sicuro non rifiutiamo di curare il paziente, che pagherà quando possibile. Se poi uno è povero interveniamo attingendo da un fondo, che chiamiamo “mission approach”. Diciamo che questa è una differenza importante rispetto alle cliniche private, che devono fare guadagni, dove se il paziente non può pagare viene rifiutato. Cosa che purtroppo molte volte succede anche negli Ospedali governativi, dove il paziente viene accolto, ma deve acquistare i farmaci all’esterno e in caso di intervento chirurgico la famiglia deve provvedere al gasolio per il generatore, ai guanti, garze, fili ecc.
Per anni, come chirurga ha lavorato operando spesso i feriti delle tante guerre presenti in Africa, come è cambiata la situazione dell'Africa negli anni, ci sono segnali di speranza?
Si, purtroppo mi è capitato anche troppo spesso di fare il chirurgo di guerra, occupandomi anche dei feriti oltre che dei pazienti “normali”, che poi in tempo di conflitti anche questi tanto normali non sono, perché tutto si complica, anche i trasporti ovviamente, e spesso arrivano in ospedale molto tardi e in condizioni disperate. In periodo di pace, evidentemente le cose cambiano perché vengono a mancare la maggior parte di quelle emergenze connesse con le ferite da armi da fuoco. Dico la maggior parte e non tutte, perché purtroppo di armi ce ne sono sempre troppe in giro! Se le strade sono libere la gente può raggiungere l’ospedale in tempo per essere presi in carico senza giungere a quelle tragiche complicanze legate ai ritardi, come per esempio in caso di parti complicati.
Negli ultimi 6 anni Suor Maria Martinelli è stata nominata Superiora Provinciale delle Suore in Sud Sudan, in cosa consiste questo ulteriore ruolo?
Direi che essenzialmente consiste nel prendersi cura delle sorelle che sono nelle diverse comunità, nel senso di assicurarsi che stiano bene, che possano fare il loro lavoro serenamente, collaborando tra di loro e con le autorità locali, sia a livello ecclesiale che governativo. Vegliare a che i vari impegni siano sempre conformi al nostro carisma, per cui essere attente alle nuove necessità che possono sorgere e che richiedono nuovi ambiti di presenze, come può essere quella cui ho accennato prima, del trauma healing, o di avere qualche presenza nell’Università. Ancora, promuovere e facilitare gli incontri tra di noi per verificare il nostro cammino e lavoro e discernere e pianificare le attività nei mesi successivi, assicurare che le sorelle siano in numero sufficiente nelle varie comunità e adatte al servizio che devono svolgere… purtroppo le necessità sarebbero tantissime e noi possiamo rispondere solo in modo limitato, anche per la scarsità di vocazioni religiose in questi ultimi anni…
Ora ho terminato questo servizio, passando il testimone ad una consorella keniota, e tra qualche tempo tornerò ad esercitare la mia professione di medico.
Si sente di dire qualcosa ai lettori e alla Community di MondoTrentino?
Il Trentino ha una grande tradizione missionaria e di volontariato, lancerei un appello a continuare nei solchi di questa tradizione, tenendo il cuore e la vita aperti a venire incontro a tante necessità di popoli poveri e in cammino, in ricerca, di un futuro migliore. E lancerei anche un appello ai giovani che sentissero in qualche modo che il Signore li chiama ad impegno più totale, che non abbiano paura, vale la pena di impegnarsi per Lui!